Il contributo del Gigli al Giorno della Memoria tra immagini, storia e letteratura.

Il contributo del Gigli al Giorno della Memoria tra immagini, storia e letteratura.

La riflessione sul Giorno della Memoria, la cui ricorrenza cade il 27 Gennaio, ha sollecitato, intorno a questa data, la nascita di progetti e di studi da parte di numerosi professori e studenti del Gigli. Tra questi annoveriamo un video realizzato dagli studenti in collaborazione con i rappresentanti, l’incontro con gli storici locali Andrea Andrigo e Giorgio Ferrari che si è tenuto Mercoledì 25 Gennaio nella Biblioteca d’Istituto ed infine una lettura scenica a cura di Barbara Mino dal titolo Voi che vivete sicuri, che si terrà Mercoledì 1 Febbraio in aula Paolo VI. Varie attività di ricerca sono state svolte dalle classi tra cui una presentazione Per non dimenticare realizzata dal neonato Collettivo Gigli. Sulla porta di ogni classe è stata esposto un foglio con citazioni di testimonianza della Shoah.

Anche la classe V E del liceo delle Scienze umane ha offerto il proprio contributo per questa il Giorno della Memoria. Nello specifico gli studenti, coordinati dalla Prof.ssa Mirella D’Ettorre, hanno letto il romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi, analizzandone i diversi capitoli, e hanno elaborato un breve saggio critico contenente un confronto tra la Divina Commedia di Dante Alighieri e l’opera dell’autore torinese.

Di seguito la relazione realizzata dagli studenti della Classe V E:

Se questo è un uomo di Primo Levi

Nell’introduzione del libro è l’autore stesso a delineare il dogma dello “straniero nemico” da cui proviene ogni forma di razzismo e discriminazione. L’uomo è indotto a pensare che tutto ciò che non conosce (e che quindi non può padroneggiare) sia contro di lui e sia il male. Al culmine di questa catena costruita dall’ignoranza, dall’egoismo e dalla violenza c’è il Lager. È disarmante il modo in cui Levi ci permette di comprendere l’incomprensibile, di ricostruire la genesi del più brutale crimine contro l’umanità solamente in poche e semplici parole, ma è altrettanto disarmante il modo in cui lo scrittore capovolge il dogma dello “straniero nemico” durante alcuni episodi commoventi della sua storia.

Dal Capitolo “Lavoro”:


<< Proverò a mettermi in coppia con Resnyk, che pare un buon lavoratore, e inoltre, essendo di alta statura, verrà a sopportare la maggior parte del peso. So che è nell’ordine delle cose che Resnyk mi rifiuti con disprezzo, e si metta in coppia con un altro individuo robusto; e allora io chiederò di andare alla latrina, e ci starò il più a lungo possibile, e poi cercherò di nascondermi con la certezza di essere immediatamente rintracciato, deriso e percosso; ma tutto è meglio di questo lavoro. Invece no: Resnyk accetta, non solo, ma solleva da solo la traversina e me l’appoggia sulla spalla destra con precauzione; poi alza l’altra estremità, vi pone sotto la spalla sinistra e partiamo >>

A prescindere dalla nazionalità, dal sesso, dal mestiere, dai gusti, dalle idee politiche e dalle credenze di ognuno dei deportati nessuno considerava l’altro nemico perché tutti quanti, sebbene così diversi, condividevano la peggiore delle condizioni d’esistenza possibili. Tutti quanti vivevano nel dolore di sapersi ancora vivi, lontano dai propri affetti e dalla propria casa. Riconoscersi solidale e ricevere affetto gratuitamente poteva essere l’unico modo di fuggire, per un momento, al destino crudele del Lager. (Giulia Milinci). 

Dal Capitolo “Sul fondo“:


<< Ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. >> 

L’autore tenta di mettere per iscritto la sua meditata testimonianza. Primo Levi ha fatto esperienza della deportazione nazista presso il campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta fra il 1943 e il 1945. Nel raccontare l’orrore subito, Levi prende immediatamente coscienza della difficoltà nell’esprimere l’ “offesa” subita. La nostra lingua “manca di parole” proprio perché è un costrutto umano, i termini che usiamo nella nostra quotidianità si riferiscono a esperienze umane. Levi intende porci questa domanda: il nostro linguaggio può tradurre una ferita tanto profonda? L’autore rende esplicito il problema dell’incomunicabilità, non per giustificare la lontananza della sua scrittura da ciò che ha vissuto, ma per precisare che il deficit della nostra lingua nell’esprimere tanta violenza è dovuto al fatto che essa non sia comunicabile in termini umani. Non ha nome quella sofferenza, non ha nome quel tormento, non c’è alcun termine che rifletta tanto strazio e tanta desolazione così come non c’è una cura per cicatrizzare un ricordo così inquietante. La memoria di chi porta il peso di questa testimonianza è segnata dalle indelebili immagini dello sterminio. Si tratta di un dolore che per ognuno di noi, in quanto uomini, dovrebbe essere impensabile e inammissibile poiché disumano e atroce, ma paradossalmente è stato inflitto proprio dagli uomini. 
differenza con il tema dell’ineffabilità che emerge nel Paradiso di Dante Alighieri. Il Poeta a più riprese nel corso della Cantica III della Commedia ammette che, pur facendo ricorso a tutta la sua capacità poetica e a tutta la sua ispirazione umana, per rendere un’idea delle cose descritte, si ritrova costretto a costruire neologismi, perifrasi complesse, similitudini mitologiche e descrivere situazioni impossibili in natura. Quella di Dante è un’incomunicabilità differente, egli non riesce a tradurre in parole umane la bellezza e l’evanescenza del Regno Santo, una dimensione sovrumana che va oltre le qualità terrene. La difficoltà dell’Alighieri nasce dal labile ricordo che della visione è rimasto nella sua memoria e dalla sproporzione fra le capacità del suo intelletto e l’altezza delle cose vedute. (Benedetta)

Dal Capitolo “Sul fondo“:

<<Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più  piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara.>> 

Spesso, gli uomini (homo, homines) preferiscono essere in possesso di beni materiali, dalle dimensioni vistose, prima di attribuirgli significato, o di ritenersi fortunati. Si vuol cercare felicità in grandi cose, quando ciò che rende veramente vivi sono le piccole cianfrusaglie che si collezionano durante una vacanza; piccoli pensieri, una sciarpa, o anche un fazzoletto di stoffa di una persona cara che, purtroppo, è venuta a mancare. Non ci si rende mai conto di quanto si è fortunati a chiamare “mio” anche un letto, fino a quando non ci viene ingiustamente sottratto. (Edna) 

Dal Capitolo “Sul fondo”:

<< Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo >>. 

Levi spiega come anche il cercare un contatto solidale in una situazione così tragica possa essere doloroso: vedere la sofferenza e la fatica nel viso dei propri conterranei rende il supplizio ancora più difficile. Il ricordo invece è la cosa peggiore poiché cercare di rievocare la vita passata rende ancora più ardua la sfida di vivere il presente: ricordare la vita vissuta prima del campo riporta un sentimento di malinconia, che rende ancora più straziante la condizione. (Vanessa) 

Dal Capitolo “Sul fondo“:


<<Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di  fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti.>> 

Primo Levi, arrivato da poco nel campo di concentramento di Auschwitz, notò due ragazzi appoggiati alla parete di una baracca. Uno di questi era Schlome, un ebreo polacco, che si trovava nel Lager da tre anni e lavorava lì come fabbro. Era sporco, non parlava italiano e dopo un breve dialogo composto prevalentemente da gesti abbracciò timidamente l’autore. Egli non rivide più il giovane, ma il gesto solidale del ragazzo gli regalò un piccolo istante di serenità, di pura gioia, facendogli quasi dimenticare di trovarsi in quel luogo di sofferenza e distruzione. (Donatela) 

Dal Capitolo “Iniziazione”:


<< La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna […], siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, tégak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e noi così la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini. E oggi ancora, così come nella favola antica, noi tutti sentiamo, e i tedeschi stessi sentono, che una maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida nel cielo come una bestemmia di pietra. >>

In questo estratto così suggestivo e paradossale Levi pone un ulteriore problema che si aggrava sui prigionieri del campo: la comunicazione, impossibilitata dalla quantità di lingue che si mescolano in quelle macabre stanze. Dentro il lager infatti, oltre al dolore per la fame, i maltrattamenti e le condizioni di vita disumane, era molto complesso riuscire ad esternare le proprie emozioni con il prossimo, eliminando anche la minima possibilità di conversare liberamente, che avrebbe permesso ai prigionieri di rincuorarsi vicendevolmente. (Edoardo) 

Dal Capitolo “Ka-Be“:

<< Intorno, tutto ci è nemico. Sopra di noi, si rincorrono le nuvole maligne, per separarci dal sole; da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva del filo spinato che ci segrega dal mondo. >>

Primo Levi e gli altri, in questa situazione, comprendono il valore della libertà, del poter vivere la vita: avere una casa loro, una famiglia e del buon cibo. Sono rinchiusi nei Lager, prossimi alla morte, senza una potenziale via di fuga, lontani dal mondo ed è qui che i ricordi felici riaffiorano. Tutti intorno a loro sono dei nemici, dalle truppe tedesche agli altri prigionieri. (Dalila) 

Dal Capitolo “Ka-Be”:

<< “Heimweh” si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire “dolore della casa” >> 

Diversi sono i riferimenti al tema del ricordo all’interno del libro, ma difficilmente la memoria sembra avere una connotazione positiva. Gli uomini, le donne e i bambini deportati sono stati privati di tutto, a partire dai vestiti fino ad arrivare alla voglia di sperare e di ricordare la libertà prima dell’ingresso nel Lager. È dolorosa la consapevolezza di aver perso la vita, sotto qualsiasi punto di vista, e il ricordo di essa non riesce a rendere sopportabile la permanenza nel campo di concentramento. Gli ebrei sono giunti ad un punto di non ritorno, e fa più male anche solo provare a rivivere la felicità e la tranquillità precedenti poiché è solo un battito di ciglia a ricordare al loro cuore la realtà dei fatti: una verità terribile, cupa e alla quale non si può scampare. Dante Alighieri fa pronunciare a Francesca da Rimini un pensiero  simile: << Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria >> Inferno Canto V, vv. 121-123. (Gaia) 

Dal Capitolo “Ka-Be”:

<<Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche>>. 

Attraverso questa frase si può comprendere come il sogno sia un’evasione dal presente: un momento in cui Levi, addolorato, riesce a scappare e rifugiarsi in una realtà altra dove nulla lo turba. Sorge successivamente il problema del risveglio perché si ritorna all’atroce realtà e per sopportarla non è certamente utile pensare ai bei ricordi passati. Anche Francesca da Rimini nel Canto V dell’Inferno lo disse: “Nessun maggiore dolore, che ricordarsi del tempo felice ne la miseria” vv. 121-123. (Alessia V.) 

l sogno è il momento in cui l’inconscio emerge in noi e, ardito e prepotente, prende il sopravvento sulla ragione; è l’espressione dei nostri desideri più profondi, delle paure, delle speranze che albergano nel profondo; è una forma di evasione dalla realtà che ci permette di viaggiare con la mente, immaginare luoghi lontani, vivere esperienze nuove. Tutto questo non nel lager. Nel lager, il sogno reca dolore, sconforto e sofferenza ed è causa di affanno, angoscia e desolazione. Sognare è pericoloso perché, al risveglio, la brutale restituzione alla realtà insopportabile della prigionia è un tormento senza fine. Ecco perché Levi, e come lui tanti deportati, cerca di fuggire il sogno, evitarlo e interromperlo. Così come altri tentano di sopprimere con l’indifferenza, l’apatia e l’assoluta obbedienza agli ordini tedeschi tutte quelle facoltà umane quali la ragione, la coscienza, il pensiero, la morale che, se attive e in funzione in un prigioniero del Lager, certo avrebbero reso la situazione ancora più difficile da sopportare. “Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo” afferma con rammarico Levi, “ma ci siete riusciti, tedeschi”, offendendolo e umiliandolo privando lui dell’abito, delle scarpe, dei capelli, della parola, persino del nome. Nei campi di concentramento, in un attimo, la situazione è giunta al fondo, un fondo oltre il quale era impossibile andare. E stava allora agli uomini trovare in se stessi la forza e la volontà di non arrendersi a divenire “bestie stanche” e di continuare a lottare per essere uomini. (Sofia) 


Dal Capitolo “Una buona”:  

<< Nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi >>


Dal Capitolo “I fatti dell’estate”:

<< Eravamo troppo distrutti per temere veramente >>

<< Per loro noi siamo Kazett, neutro singolare >>

Perdita di umanità, di questo si parla. Ai nostri occhi è quasi inconcepibile pensare a come degli uomini abbiano dovuto affrontare simili tragedie e provare simili orrori. Persone che prima avevano una famiglia, un’occupazione, una casa in cui trovare conforto, un amico con cui parlare, una stabilità… E ora? Nulla. Soli e abbandonati al loro destino, mossi dal forte desiderio di terminare quella tortura perché la vita non è così, vivere non è questo. Era tutto ridotto a qualcosa che sembrava essere interminabile: ogni giorno un ripetersi infinito dello stesso incubo, quasi senza alcuna speranza, senza avere una dimensione del tempo, dello spazio, della fame. Non dobbiamo dimenticare ciò che è avvenuto nella storia: è opportuno riflettere sul limite al quale si può spingere la cattiveria degli esseri umani ed essere solidali nei confronti di chi ha dovuto subire questa sofferenza. (Giulia Martino) 


Dal Capitolo “Le nostre notti”:

<< Questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga nota ferma, poi un’altra più bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca. Questo fischio è una cosa importante, è in qualche modo essenziale: così sovente ovviamente l’abbiamo udito, associato alla sofferenza del lavoro e del campo che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente la rappresentazione, come accade per certe musiche e certi odori. >>

Questo estratto riferisce alla sfera uditiva. La musica come la poesia può rievocare momenti passati che possono essere stati dolorosi o felici, ci fa immergere in essi come questo passo in cui il fischio della Decauville proveniente dal cantiere che lavora è descritto in modo dettagliato. Ci sembra quasi di sentirlo mentre leggiamo le parole dell’autore. Questo è il fischio che riporta alla realtà! Levi è risvegliato da quello che era un bel sogno, forma di evasione dai pensieri, ma a causa del suono riscopre il dolore. Nonostante il suono si senta in lontananza, per Levi è come fosse vicino dal momento che rievoca in lui il momento del lavoro che è pesante e che gli provoca dolore nel corpo; anche la sua vita all’interno del campo che mette a dura prova la sua persona e il suo essere uomo. Nelle sue parole il suono breve ma tronco, associato alla sofferenza del lavoro e al campo in sé, non viene ricordato solamente quando è prigioniero ma, come possiamo notare, Levi lo porterà con sé anche dopo essere stato liberato. (Martina) 

Dal Capitolo “I fatti dell’estate”:

<<Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; […] Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.>> 

In tutto il testo troviamo pochissimi esempi di solidarietà umana; tra questi c’è Lorenzo, un uomo comune che aiuta molto Levi, più che dal punto di vista materiale, da quello morale. Levi dice che è grazie a lui se è riuscito a sopravvivere, Lorenzo è stato colui che gli ha dato un barlume di speranza dove tutto era buio, facendogli pensare che al di fuori del Lager esistessero ancora persone con un cuore ed umanità. Levi evidenzia con la frase “Ma Lorenzo era un uomo”, l’inferno che lo circondava e nel quale doveva sopravvivere tutti i giorni. (Alessia S.) 

È possibile trovare ancora una traccia di umanità all’interno di questo terribile scenario? Levi ci riesce. Anche nel Lager, dove bisognava lottare per custodire i propri stracci, cercare di mangiare il proprio pane e se possibile rubare quello del compagno e sopravvivere adeguandosi alla condizione di bestie a cui l’uomo oramai era ridotto; è possibile vedere nei piccoli gesti un forte bisogno di condivisione e supporto umano che potesse far ricordare ai prigionieri di essere ancora vivi. (Sara) 

Dal Capitolo “Il canto di Ulisse”:

<<Darei la zuppa di oggi per saper saldare quel <<non ne avevo alcuna>> col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio>>.

L’arte, sotto forma di poesia, corre in aiuto durante una situazione tragica come la vita nel Lager dando sollievo all’animo, dimenticatosi di essere umano. (Alessandro) 

Dal Capitolo “Esame di chimica”:

<< Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute. >> 

Levi evidenzia come l’irrazionalità e il trauma dell’esperienza vissuta lo portino inconsciamente all’incredulità verso gli orrori del campo. Egli sottolinea più volte, infatti, la radice “inumana” delle crudeltà subite, e di conseguenza l’impossibilità di dare una spiegazione e quindi arginare la ferita psichica subita. (Lucia) 

Dal Capitolo “Die drei Leute vom Labor“:

<< L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e le leggi che la governavano, e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere. >>

Dopo aver sentito le donne, compagne di laboratorio, parlare delle vacanze del Natale e della propria famiglia, lo scrittore fa una digressione, ricordando che solo un anno prima lui era libero, e coltivava passioni che lo rendevano umano e vivo. È infatti sottolineata più volte l’idea della memoria dolorosa che riporta momenti di pace nella vita del protagonista prima di schiantarsi di nuovo contro la realtà del presente senza speranze. (Esmeralda) 

Dal Capitolo “Die drei leute vom labor“:

<< Quanti mesi sono passati dal nostro ingresso in campo? Quanti dal  giorno in cui sono stato dimesso dal Ka-Be? E dal giorno dell’esame di chimica? E dalla selezione di ottobre? […] Ora siamo ventuno, e l’inverno è appena incominciato. Quanto fra noi giungeranno vivi al nuovo anno?>>

Questo piccolo estratto esplicita e riesce a trasmettere al lettore il clima di angoscia e rassegnazione che si respirava all’interno dei Lager e l’assenza di speranza che era ormai parte integrante del pensiero quotidiano di tutti i deportati; viene sottolineata inoltre all’inizio la questione dello scorrere dei giorni: i prigionieri non hanno più la cognizione del tempo ma anzi sembra quasi che facciano un conto alla rovescia verso l’avvicinarsi del loro ultimo giorno. (Elisa) 

<< La nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che la nostra vita. >> 

Il pensiero è molto profondo, in quanto traccia una linea di separazione tra essere vivente e essere umano, che è poi lo scopo ultimo del romanzo. Perdere se stessi durante il cammino della vita è molto più facile di ciò che sembra, questo perché il cervello umano ha un limite di sopportazione al dolore: l’essere umano è sì resiliente, ma non invincibile. Qualora gli si presentino davanti vicende insopportabili, la mente si dissocia automaticamente, staccandosi dalla realtà in un estremo e tragico tentativo di salvare se stessa. Recuperarsi, poi, è per lei quasi impossibile, e per farlo dovrà lasciare una profonda cicatrice. Essere fedeli a se stessi è quindi l’impresa più ardua per un confinato o imprigionato, come gli ebrei nei lager di cui parla Levi, concetto altresì ribadito in The Big Brother, dell’autore inglese George Orwell. (Giada)


Classe VE

Classe V E

Pubblicato da ilgiornalinogigli

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