Don’t mock this mockumentary!

Don’t mock this mockumentary!

Ignorando completamente l’idea che un film horror non fosse esattamente il contenuto più adatto per quella giornata, a Natale ho visto Incantation, un film horror del 2022 diretto dal regista taiwanese Kevin Ko. Inizialmente l’avevo accantonato: la mancanza di un doppiaggio italiano mi avrebbe forzato a leggere sottotitoli a profusione, spezzando, quindi, l’immersione. Tuttavia, sono ritornato a guardarlo entusiasta dopo aver scoperto che era un mockumentary, dall’inglese mock (finto, simulato) e documentary (documentario): è un genere cinematografico spesso unito all’horror che presenta fatti fittizi come fatti reali presentandosi come un documentario. Non mi sono pentito assolutamente della scelta: Incantation si è rivelato infatti essere l’horror più spaventoso che io abbia mai guardato, utilizzando in modo egregio i mezzi offerti dal suo medium artistico; scopriamo insieme come.

Uno dei maggiori punti di forza di Incantation sta nella sua natura di mockumentary; il genere, infatti, presenta le sue vicende esclusivamente attraverso una telecamera (stazionaria o controllata da altri personaggi) che rappresenta lo sguardo del pubblico. Questo forza lo spettatore a divenire un osservatore interno e impotente, spesso posto dinanzi a situazioni ricche di suspance e pervase da un forte senso di vulnerabilità: la telecamera, infatti, non può fuggire dai pericoli imminenti, perciò l’osservatore è costretto a sopportare la tensione finché lo vuole il regista. Nonostante il mockumentary sia un espediente narrativo potenzialmente molto efficace, è anche vero, tuttavia, che questo sia piuttosto difficile da eseguire correttamente, dato che pone diverse limitazioni espressive soprattutto nell’ambito dell’”exposition” (il modo in cui un’opera fa sapere allo spettatore dettagli relativi alla storia, ai temi, ai personaggi o al mondo in cui sono ambientate le vicende) e dell’immersione: non è mai possibile, ad esempio, staccarsi dal punto di vista della telecamera per osservare meglio un certo dettaglio, o per spiegare più accuratamente una certa informazione. Incantation, tuttavia, è in grado, tramite una scrittura molto curata, di rendere il mockumentary non una limitazione, bensì uno strumento intelligente per l’”exposition” creativa. Tutte le informazioni necessarie sono infatti presentate in situazioni realistiche, come un vlog, un’intervista o una seduta psichiatrica, oppure sono appositamente omesse seguendo la rule of thumb cinematografica del “show don’t tell”, dall’inglese, “mostra non dire”: il film, infatti, preferisce far capire un concetto allo spettatore facendoglielo “provare sulla propria pelle” anziché cadere nel semplice ma mediocre spiegone del protagonista, che spesso spezza l’immersione distaccandosi dalla realtà e dalla logica. 

Tuttavia il modo più strabiliante in cui Incantation sfrutta il mockumentary è tramite la partecipazione dello spettatore: come ho già precedentemente spiegato, il mockumentary essenzialmente fa coincidere la telecamera con lo sguardo dello spettatore, rendendola una sorta di personaggio muto e immobile interno alla storia; il film utilizza questo aspetto per catturare molto efficacemente l’attenzione, accentuare l’immersione e rompere la quarta parete, esortando in diverse occasioni lo spettatore a recitare un mantra, memorizzare un simbolo o osservare da un altro punto di vista una determinata immagine. Mi è rimasta impressa, ad esempio, una scena nella quale viene mostrato al centro dell’inquadratura un simbolo religioso mentre viene tradotto con piccole scritte rosse un mantra sanscrito ricorrente per tutta la pellicola; l’immagine è ricca di diversi elementi e confonde molto la vista, soprattutto dato quanto tempo rimane sullo schermo, perciò, una volta che scompare lasciando spazio ad un semplice sfondo bianco, il simbolo rimane fisicamente impresso nella vista dello spettatore per una decina di secondi, dettaglio che diventa piuttosto spaventoso una volta rivelato che memorizzarlo equivale a maledire sé stessi e chi ci sta attorno. Utilizzi così creativi del proprio medium espressivo, irreplicabili in un altro genere artistico, sono un chiaro segno di scrittura esperta e estremamente intelligente.

Distaccandoci, infine, dal fatto che sia un mockumentary, Incantation si comporta da ottimo horror, in particolare nel costruire tensione e mistero intorno ad un avvenimento mostrandone solamente le conseguenze e portando, quindi, ad essere ancor più spaventati una volta che si giunge, effettivamente, a scoprirne le cause scatenanti.

Per concludere, Incantation, si dimostra un must watch per qualsiasi appassionato di horror (e per chi, come me, è costantemente affamato di mockumentary), che farà tremare anche chi non crede nel soprannaturale.

Niccolò Bosetti, 2C

 

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